Di Chelsea White
Corrispondente del Collegian
Tradotto da Annarita De Angelis
Edito da Eleonora Pellicanò
Tra le 8:30 e le 17, decine di studenti, professori e membri dell’Università del Massachusetts entrano ogni giorno in un singolare caffè dalla porta sul retro della First Baptist Church.
La chiesa, che si trova nell’area sud-est del campus, è stata rinnovata quest’anno per ospitare il Freedom Cafè, una piccola caffetteria che si trovava dall’altra parte del campus dal 2013.
L’inaugurazione è avvenuta il 5 settembre, primo giorno di lezioni a Umass.
Attaccati alle pareti, tra le finestre, si vedono enormi tele con donne indiane che sorridono e posano insieme, con gioielli della loro tradizione e vestiti dai colori sgargianti. In sottofondo musica indie, mentre un gruppo di amici chiacchiera sul divano e altri lavorano al computer.
Nonostante la scritta “Drink to Freedom” (Brindiamo alla libertà) all’interno del loro logo sullo striscione fuori dal caffè, non tutti quelli che entrano conoscono il lungo viaggio e lo scopo dietro
l’esistenza di questo caffè.
I fondatori del caffè, Dan Johnson, di 38 anni, e Shane Adams, di 43, sono venuti a conoscenza della schiavitù sessuale per la prima volta nel 2007, dal documentario “Nefarious: Merchants of
Souls.”
L’organizzazione End Slavery Now stima che ci siano 4,5 milioni di vittime di traffico sessuale nel mondo di oggi. Questa realtà e i destini di molte ragazzine vendute dai loro genitori in villaggi del
nord dell’India, hanno avuto un impatto molto forte su Johnson e Adams.
Come cappellani dell’associazione cristiana di Umass, Chi Alfa, hanno organizzato una serata open mic per una raccolta fondi nella torre residenziale John Quincy Adams.
Aiutati da una caffetteria locale che ha donato tempo e risorse, hanno messo su una caffetteria posticcia e hanno servito caffè e prodotti da forno mentre le persone cantavano o recitavano poesie.
Alla fine della serata, hanno raccolto 200 dollari per le sopravvissute alla schiavitù sessuale, somma che non sarebbe stata abbastanza per coprire il costo dell’organizzazione dell’evento, se le risorse non fossero state donate.
A dispetto di ciò, Johnson e Adams avevano sentito una vocazione ancora più profonda verso la giustizia sociale che era cresciuta insieme alla loro fede.
“E se la giustizia sociale non fosse soltanto un qualcosa che facciamo come evento, ma fosse parte di chi siamo?” si è chiesto in seguito Johnson.
Mentre Johnson e Adams pensavano a come incorporare la giustizia sociale all’interno dell’organizzazione cristiana Chi Alfa, non riuscivano a togliersi dalla mente l’idea di aprire un
caffè tutto loro.
Quando ho chiesto come hanno aperto il caffè, Adams ha cominciato a ridacchiare sotto i baffi, per finire poi in una sana risata.
“Non sapevamo niente di business. Gli studenti di Isenberg possono smettere di leggere se vogliono” ha detto Johnson.
“Questa è la parte divertente dell’intervista” ha aggiunto Adams.
Nel primo periodo dell’organizzazione di quello che diventerà poi il Freedom Cafè, i due hanno imparato ogni singolo dettaglio sulla regolamentazione. Mai nessuno ad Amherst aveva provato ad
aprire una caffetteria gestita da volontari all’entrata sul retro di una residenza, che invece di far pagare per il caffè, accetta donazioni.
“Non si ha la libertà di fare tutto quello che vuoi, a meno che non sia illegale. È l’opposto” ha detto Johnson. Per ottenere tutti i permessi, Johnson e Adams si sono dovuti trovare di fronte a tantissime commissioni, hanno dovuto ottenere licenze e lasciapassare su ogni singola cosa, da quanto parcheggio avrebbero avuto fino alla grandezza del lavandino.
Nel 2013 hanno aperto nella parte nord del campus, in una casa il cui secondo piano era occupato dai membri di Chi Alfa. Il caffè è completamente gestito da volontari, quindi la gran parte delle
donazioni serve ad aiutare le vittime e quelli a rischio di essere venduti come schiavi.
Nella loro prima estate, hanno raccolto 2000 dollari, e nell’ultimo anno più di 13000. All’inizio Johnson ed Adams non erano sicuri di come volessero donare queste somme, perché volevano che
andassero ad un’associazione dove potevano fare la differenza per le donne e le ragazze, e alla fine presero una decisione.
Decisero di collaborare con Ashagaon, un centro nell’India settentrionale iniziato da una ONG fuori il Rajastan. Ashagaon è nata in un villaggio dove le famiglie di solito festeggiavano quando
nasceva una bambina, perché sapevano che sarebbe stata una risorsa finanziaria una volta che avrebbe raggiunto la pubertà. L’economia del villaggio si basava sulla vendita delle bambine per
prostituzione, spesso mandandole in città come Dubai e Mumbai.
La missione del centro è quella di dare alle bambine e alle ragazze un posto per riprendersi dall’abuso e guadagnare qualcosa, per far sì che la vendita delle bambine finisca.
Johnson e Adams hanno mandato i 13.000 dollari ad Ashagaon, scoprendo poi che il centro avrebbe potuto chiudere quella settimana stessa per mancanza di fondi. In quel momento Johnson si è reso conto che un piccolo caffè nel campus di un college del Massachusetts poteva davvero fare la differenza dall’altra parte del mondo.
Gina Orlandi, 21 anni, studentessa di Inglese e giustizia sociale è a capo del reparto educazione al Freedom Cafè ed è entusiasta di poter rendere la libertà un qualcosa di reale per tutte le persone del mondo.
Orlandi ha deciso che voleva vedere i cambiamenti di persona e si è iscritta ad un semestre all’estero nel secondo semestre del 2017. Questo programma le ha permesso di lavorare direttamente con Ashagoan in India. Durante il suo periodo lì, è riuscita ad intervistare moltissime donne che avevano vissuto la straziante esperienza della schiavitù sessuale.
Quando aveva 11 anni, la famiglia di Usha stava vivendo un momento difficile, per questo motivo lei venne data in sposa in un piccolo villaggio di un altro stato, la cui economia era basta sulla
schiavitù sessuale. Il nome di Usha è inventato, per evitare ritorsioni.
Quando sua madre, che era da sola, si rese conto del destino della figlia, era ormai troppo tardi. La nuova famiglia di Usha l’aveva venduta a Mumbai, nel traffico sessuale, e da lì, per la stessa
ragione, era poi stata mandata a Delhi.
All’età di 13 anni, Usha è tornata a casa da suo marito che di anni ne aveva 22, ed è rimasta incinta del suo primo figlio. A 17 anni Usha aveva già tre bambini, tutti di un uomo che beveva troppo e si sfogava fisicamente ed emotivamente su di lei e suoi figli.
Adesso, anni dopo, con i soldi guadagnati al centro, i figli di Usha vanno a scuola e il marito ha smesso di bere.
Storie di riconciliazione come quella di Usha stanno diventando sempre più frequenti da quando esiste il centro nel villaggio.
“C’è ancora tanto da fare,” ha detto Orlandi. “Ma il posto in cui decidi di prendere il caffè può fare davvero la differenza.”
Chelsea White può essere contattata a [email protected].